“Io ero qui” dallo scalpello a facebook attraverso gli oltre 700 anni di storia del Santa Maria Nuova - Un insospettato “museo delle parole” nel colonnato esterno dell’ospedale-

Scritto da ufficio stampa, lunedì 25 giugno 2018

Firenze - Lasciare una traccia, raccontarsi perlopiù. E’ quanto ha sempre rappresentato un’esigenza umana primaria al fine di ricevere, da parte di chi legge o ascolta, la conferma di esistere. Quest’abitudine remota, già in uso nella preistoria, è verosimile che in parte abbia a che fare con un esorcismo avverso alla morte, ma quasi certamente attiene al bisogno di comunicare la nostra esistenza, quasi fosse una sorta di “legge di vita” non scritta. Sono innumerevoli i manufatti espressivi che arrivano ai giorni nostri intatti di “notizie” dal passato, ed è altrettanto presumibile che ancora più cospicui saranno i “messaggi” che lasceremo in eredità ai posteri con i moderni mezzi comunicativi. Forme espressive fra le più svariate: scritte, incisioni, graffiti, quadri, foto, social network, istant messenger. Modi vecchi e nuovi di divulgare messi a confronto, che ci permettono di constatare come attraverso i secoli e nonostante il cambio di “strumenti”, permanga intatta la necessità di collocarsi nella storia attraverso segnali del nostro “viaggio” nella vita.

Quanto alle ubicazioni ove si è sempre manifestata la necessità umana di non essere “invisibili”, sono certamente di elezione i “luoghi del dolore”. Carceri, ex manicomi, e non ultimi gli ospedali, si sono sempre mostrati vetrine d’eccezione per le numerose testimonianze grafiche che, non raramente, si rendono ancora fruibili tutt’oggi. Testimonianze che spesso restituiscono intatte, anche a distanza di secoli, le volontà di dirci “io ero qui”. Urla silenziose, incise nell’intonaco e nella pietra, raccontano spesso dolorose permanenze, ma anche, talvolta, qualche vittoria e qualche guarigione. A tale proposito non fa certo eccezione il Santa Maria Nuova; primo nosocomio al mondo ad essere edificato e concepito come tale nel lontano 1288. Fondato dal banchiere Folco Portinari, il padre di Beatrice amata da Dante, è una delle più antiche e importanti istituzioni assistenziali fiorentine, nonché struttura dall’alto profilo storico/artistico di tutto rispetto, anche grazie alla profusione di decorazioni da parte di alcuni dei migliori artisti fiorentini nelle varie epoche. Soggetto a numerose modifiche ed ampliamenti nel corso dei secoli, l’ospedale ha visto avvicendarsi, fra gli altri, artisti del calibro di: Giovanni della Robbia, Niccolò di Pietro Gerini, Giambologna, Alessandro Allori e Bernardo Buontalenti. E’ a quest’ultimo che si attribuisce la progettazione del grande porticato esterno (la costruzione vera e propria sarebbe ascrivibile all’architetto Giulio Parigi in quanto l’inizio dei lavori non avvenne prima del 1611, data nella quale il Buontalenti era già deceduto), oggetto della nostra curiosità in termini di “messaggi” dal passato. E’ infatti proprio fra le facce laterali di questo imponente porticato monumentale (che dopo due secoli vide la sua ultimazione nella seconda metà del 900 con il compimento dell’ala sinistra a cura della Proprietà della Cassa di Risparmio) che si possono apprezzare numerose iscrizioni scalpellate nella pietra da parte dei ricoverati che nei secoli si sono avvicendati e, con buona probabilità, anche di alcuni operai che vi prestarono manodopera nel medesimo lasso di tempo. Una volontà comune ed inequivocabile di “imprimere” la loro permanenza, o di raccontarci talvolta un loro semplice passaggio fra quelle mura pluricentenarie così ricche di vita vissuta e di storia. E’ così che tale “Granducci”, andando a capo sull’ultima sillaba del cognome per fine margine della colonna, ci dice, incidendo la pietra: “ero qui” nel 1776; piuttosto che l’altisonante “U. Torrigiani” che in bella calligrafia ci fa immaginare una giornata del 1790; passando poi per una dichiarazione di viva amicizia, iconografata con un “cuore”, dei tre presumibili compagni di camerata “Paladini” “Paciarelli” e “Minghetti”, datata 1866; e una non meno scenografica incisione di “F. Garzella”, che nel 1871 circoscrive il proprio nome in uno stemma. E ancora: “Bartalena 1856”, “Fiaschini 1792” e non ultimo un vero e proprio capolavoro scultoreo datato 1858, dove la suggestiva simbologia di un serpente che si morde la coda sovrastato da una stella irradiante, racchiude i nomi stilizzati dell’autore “Ilario Manzoni”, e di tre amici presenti alla realizzazione “F. Lobin, G. Guelfi e M. Pini”.

Naturalmente possiamo solo immaginare o supporre, attraverso questa forma grafica arcaica e limitata, quale reale “informazione” hanno inteso lasciarci, ma di certo non possiamo sbagliare pensando che tutti loro ambissero in una qualche maniera ad una personale forma di “immortalità”.
Ecco che allora il nostro odierno “io sono qui” digitato sulla tastiera di uno smartphone, qualora si faccia lo sforzo di sovrapporlo per similitudine e volontà alle incisioni scultoree del passato, assume in questo caso una forma meno asettica e stereotipa, riacquistando un valore comunicativo individuale, con il vantaggio di essere persino coadiuvato dall’immediatezza di condivisione a permetterne la “forma presente”. Per dirlo con le parole di un grande pedagogista: “il comunicare autentico, difficile e raro esito di attenta reciprocità e non soltanto vicenda di simboli e parole, rinforza i sistemi immunitari della vita terrestre!(D. Dolci)”
Un “vizio” che davvero non dovremmo mai perdere, quello del divulgare, tenendo presente che la vera crescita sociale è sempre dipesa, e sempre dipenderà, da quell’insieme di rapporti pluridirezionali e connettivi che prendono il nome di “comunicazione”.

Quel che ci aspetta, avvicinandosi a quegli imponenti portici, sono secoli di storia in un piccolo “museo delle parole” a cielo aperto che vale la pena soffermasi ad osservare. Un patrimonio pubblico di “affermazioni di sé”, che va ad aggiungersi al già immenso palinsesto storico e culturale di uno “spedale” che non smette di stupirci.