Sul Journal of the American Medical Directors Association i risultati di una ricerca epidemiologica condotta nella fase pre-vaccino da Università di Firenze, AOU Careggi, USL Toscana Centro e Istituto Superiore di Sanità

 La sanità pubblica deve portare attenzione anche alle persone anziane meno vulnerabili

e non ospedalizzate colpite da Covid perché la malattia nei loro confronti può rivelarsi insidiosa nel lungo periodo.

È il messaggio che proviene da uno studio epidemiologico, pubblicato sul Journal of the American Medical Directors Association, a cura di Università di Firenze, Azienda ospedaliero-universitaria Careggi, Azienda USL Toscana Centro (ATC) e Istituto Superiore di Sanità [“COVID-19, Vulnerability, and Long-Term Mortality in Hospitalized and Nonhospitalized Older Persons” https://doi.org/10.1016/j.jamda.2021.12.009].

I ricercatori, diretti da Mauro Di Bari - docente di Medicina interna dell’Ateneo fiorentino e direttore della Scuola di specializzazione di Geriatria – hanno confrontato, nel periodo marzo-novembre 2020, prima dell’avvento del vaccino, i dati sulla mortalità a un anno di soggetti ultra 75enni con Covid o altre patologie distinguendo tra coloro che sono stati ricoverati (a Careggi o in altri ospedali dell’ATC) e quanti hanno fatto solo accesso al Pronto Soccorso senza poi essere ricoverati.

I dati confermano che il COVID-19 aumenta il rischio di morte sia negli anziani ospedalizzati che in quelli non ospedalizzati; in entrambi i casi, la mortalità cresce con il grado di vulnerabilità, che è valutata grazie al Codice Argento Dinamico (CAD), classificazione in quattro livelli messa a punto dallo stesso gruppo di ricercatori.

In particolare, secondo quanto rilevato dalla ricerca, nei non ospedalizzati l’eccesso di mortalità dovuto al COVID-19 è maggiore, in termini relativi, nei soggetti meno vulnerabili rispetto ai soggetti più vulnerabili. Infatti, negli anziani inseriti nella classe 1 CAD (meno vulnerabili) la mortalità è stata del 14,2% in presenza di COVID e del 2,9% in assenza della malattia, quasi 5 volte maggiore. Al contrario, negli anziani appartenenti alla fascia a maggior rischio (classe 4 di vulnerabilità CAD) la mortalità è stata del 46,7% in presenza del COVID e del 26% in sua assenza, quindi con un rapporto di 2:1.

Inoltre, mentre nei soggetti ospedalizzati la percentuale di mortalità è più alta nel primo mese di trattamento della patologia e si stabilizza nei mesi successivi, nei soggetti non ospedalizzati il rischio resta rilevante per un periodo più prolungato.

“Fin dall’inizio della pandemia, la mortalità associata al COVID-19 è risultata assai più elevata nei pazienti definiti «fragili» o, più appropriatamente, vulnerabili, ma gli studi fin qui condotti – spiega Di Bari, sottolineando la novità della ricerca - avevano preso in considerazione solo soggetti ricoverati, si erano limitati alla mortalità ospedaliera e non consentivano il confronto con pazienti senza COVID-19”.

 “Lo studio – commenta ancora Di Bari - suggerisce l’opportunità di una vigilanza maggiore e più protratta nei confronti di soggetti anziani meno vulnerabili colpiti dal COVID-19, per quanto le loro condizioni iniziali e i sintomi lievi non richiedano l’ospedalizzazione: il rischio di complicanze anche gravi e tardive non deve essere trascurato. Alla luce di questa analisi, condotta come si è detto nel periodo precedente alla comparsa del vaccino – conclude Di Bari -, possiamo affermare che è stato assolutamente opportuno estendere la vaccinazione a tutte le categorie di anziani indipendentemente dal grado di vulnerabilità, perché il vaccino è lo strumento principe della prevenzione degli effetti gravi del COVID-19”.